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L’avvocata di Differenza Donna Ilaria Boiano sull’ordinanza della Cassazione che ha dato giustizia a Laura Massaro e suo figlio

La Cassazione si esprime contro l’esecuzione forzata degli affetti – Ilaria Boiano

Con l’ordinanza n. 9691 del 24 marzo 2022 la Suprema Corte, in accoglimento totale del ricorso presentato dalla signora L.M. con gli avvocati Teresa Manente e Antonio Voltaggio, annulla la decisione di decadenza dalla responsabilità genitoriale sul figlio minore e di trasferimento del bambino in casa-famiglia, ritenendo l’uso della forza in fase di esecuzione dei provvedimenti nei confronti dei minori fuori dallo Stato di diritto. 

Ribadisce infatti la necessità non solo di un bilanciamento tra le misure adottate, il risultato atteso e l’equilibrio psicofisico dei minori, come argomentato dall’avvocato Lorenzo Stipa dinanzi alla Corte di appello di Roma che con ordinanza n. 2 del 2020 annullava una prima volta l’allontanamento del minore dalla madre.

Punto di arrivo importante della Suprema Corte è aver messo un punto a una pratica diffusa nel nostro ordinamento, ossia l’esecuzione coatta del trasferimento dei bambini e delle bambine da un genitore contro la loro volontà e in assenza di concreto pregiudizio, che avviene ed è avvenuta fuori da ogni presidio normativo.

Ciò è stato rilevato con approfondimento rigoroso anche dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione che, in persona della procuratrice generale Francesca Ceroni, ha sottoposto alla Suprema Corte tutti i profili di illegittimità della misura disposta nei confronti del minore nel caso di specie.

La Suprema Corte cassa, inoltre, la decisione della Corte di appello di Roma poiché ha inteso realizzare il diritto alla bigenitorialità rimuovendo la figura genitoriale della madre e ciò sulla base di apodittiche motivazioni che richiamano le consulenze tecniche, tutte volte all’accertamento dell’alienazione parentale, nonostante la stessa sia notoriamente un costrutto ascientifico.

Stigmatizza infatti che tali consulenze fanno riferimento al postulato patto di lealtà tra madre e figlio, o al condizionamento psicologico, tutti termini che richiamano ancora la sindrome dell’alienazione parentale.

La Corte di cassazione ribadisce che “il richiamo alla sindrome d’alienazione parentale e ad ogni suo, più o meno evidente, anche inconsapevole, corollario, non può dirsi legittimo, costituendo il fondamento pseudoscientifico di provvedimenti gravemente incisivi sulla vita dei minori, in ordine alla decadenza dalla responsabilità genitoriale della madre”.

Il collegio osserva, inoltre, che il diritto alla bigenitorialità così come ogni decisione assunta per realizzarlo non può rispondere a formula astratta “nell’assoluta indifferenza in ordine alle conseguenze sulla vita del minore, privato ex abrupto del riferimento alla figura materna con la quale, nel caso concreto, come emerge inequivocabilmente dagli atti, ha sempre convissuto felicemente, coltivando serenamente i propri interessi di bambino, e frequentando proficuamente la scuola”. 

La Corte Suprema rileva ancora che l’autorità giudiziaria di merito ha del tutto omesso di considerare quali potrebbero essere le ripercussioni sulla vita e sulla salute del minore di una brusca e definitiva sottrazione dello stesso dalla relazione familiare con la madre, con la lacerazione di ogni consuetudine di vita, ignorando che la bigenitorialità è, anzitutto, un diritto del minore.

La Cassazione inoltre ritiene nullo il provvedimento dell’autorità giudiziaria di merito per non avere proceduto all’ascolto del minore, adempimento a tutela dei principi del contraddittorio e del giusto processo.

Gli Ermellini ribadiscono sul punto che “in tema di affidamento dei figli minori l’ascolto del minore infradodicenne capace di discernimento costituisce adempimento previsto a pena di nullità, atteso che è espressamente destinato a raccogliere le sue opinioni e a valutare i suoi bisogni”. 

La Corte precisa, inoltre, che “tale adempimento non può essere sostituito dalle risultanze di una consulenza tecnica di ufficio, la quale adempie alla diversa esigenza di fornire al giudice altri strumenti di valutazione per individuare la soluzione più confacente al suo interesse”.

Invocando gli articoli 330 e 333 del codice civile, la giurisprudenza minorile dovrebbe assumere i provvedimenti previsti solo nei casi di maltrattamenti diretti o indiretti, di violenza assistita, di violenza sessuale ossia in tutti i casi in cui si ravvisano in concreto fattispecie che configurano i reati previsti dall’articolo 2 legge 19 luglio 2019, n. 69, e ciò a prescindere dall’iniziativa autonoma dell’autorità giudiziaria penale. 

Nel nostro ordinamento però proprio questi tipi di comportamenti pregiudizievoli rimangono invisibili dinanzi all’autorità giudiziaria civile e minorile, mentre si registra il ricorso alla misura della decadenza della responsabilità genitoriale o sospensione e all’allontanamento coatto dei figli dal genitore di riferimento, individuando il pregiudizio da cui difendere i figli minorenni in presunte condotte “manipolative” attribuite a un genitore a danno dei figli che manifestano difficoltà nella relazione con l’altro genitore e che sono state già ripetutamente stigmatizzate dalla Corte di cassazione, in quanto prodotto di schemi valutativi privi di fondamento scientifico che puniscono non comportamenti determinati (e sanzionati dalla legge), ma il modo d’essere delle persone secondo il modello della “colpa d’autore” (dal tedesco Tätertyp).

Ciò accade, peraltro, in modo selettivo e non neutro sotto il profilo del sesso del genitore censurato dall’autorità giudiziaria, dal momento che tali provvedimenti limitativi della responsabilità e che includono l’allontanamento del figlio dalla casa familiare di convivenza con il genitore di riferimento sono adottati in modo sproporzionato nei confronti delle madri, come rilevato dagli organismi internazionali di monitoraggio dell’attuazione delle convenzioni internazionali sin dal 2011 e denunciato instancabilmente alle istituzioni dalle organizzazioni impegnate nell’affermazione dei diritti delle donne.

Si ricorda, in particolare, che l’associazione Differenza Donna ha ripetutamente sollecitato le istituzioni all’adempimento degli obblighi di due diligence in tema di diritti delle donne e dei loro figli e figlie: nelle aule dei tribunali, infatti, pur in presenza di raccomandazioni delle organizzazioni internazionali, della comunità scientifica e del Ministero della salute, che recepisce l’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ancora i minori sono allontanati con la motivazione di “grave rischio psicopatologico” derivante dal legame materno e per il ripristino della relazione con la figura genitoriale paterna in quanto “figura di riferimento importantissima per la costruzione della propria identità”.

Si ritiene così di tutelare astrattamente la bigenitorialità, intesa quale componente imprescindibile del superiore interesse dei minori e condizione dell’equilibrio psicofisico dei minori, che però di fatto sono sistematicamente allontanati dalla madre in un contesto nel quale il modello bigenitoriale, da “legittima aspettativa dei figli” desunta dall’art. 337 ter c.c.  e diritto del minore, come ricorda la Corte di cassazione con l’ordinanza 9691/2022, si rinforza in sede giurisprudenziale di merito in dogma e unico parametro di misurazione del benessere psicologico dei minori, anche in termini prognostici del loro sano sviluppo per tradursi, in concreto, nella sola verifica del materiale “accesso” di un genitore ai figli (per lo più il padre), in un contesto nel quale l’altro genitore (di solito la madre) ha chiesto protezione per sé e/o i figli da condotte di violenza psicologica e/o fisica del padre ovvero nel caso in cui i figli manifestino disagio, fino al totale rifiuto di incontrare l’altro genitore. 

Il rifiuto o disagio dei minori non viene approfondito ricorrendo agli ordinari mezzi di prova e all’ascolto dei figli, benché l’articolo 336 c.c. al comma 2 stabilisca quale presupposto per decidere in ordine ai provvedimenti di cui agli articoli 330 e 333 c.c., compresa la misura dell’allontanamento del figlio dalla casa familiare, “l’ascolto del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento”. Non si indagano gli eventi traumatici riconducibili al genitore nei confronti del quale il minore esprime una paura tale da precludere una frequentazione serena. 

Le dinamiche della famiglia in via di scioglimento sono per lo più ricostruite dall’esperto psicoforense di volta in volta incaricato nei procedimenti secondo una modalità definitoria dell’esperienza che prescinde dal dato di realtà, anche se documentato agli atti tramite gli ordinari mezzi di prova o accertato in sede penale, e dalla narrazione di coloro che direttamente le sperimentano, restituendo la prospettazione di eventi e della vicenda familiare in una storia lineare dalla quale sparisce l’imponderabilità dei sentimenti, compresa la paura dei bambini, ma anche le dinamiche di sopraffazione e controllo, ascrivendo generalmente la crisi familiare al determinismo ammantato di scientificità delle caratterizzazioni psicologiche delle parti con lo scopo di rendere la crisi stessa intellegibile nella cornice discorsiva più rassicurante del conflitto reciproco. 

Ciò avviene nel contesto di elaborati che a un’attenta lettura rivelano la diffusione di un copione standard nel quale si alternano personaggi predefiniti dai tratti personologici più comuni con reminiscenze di profili nosologici ormai superati: come rileva l’associazione Differenza Donna, le donne sono ancora stigmatizzate con valutazioni che dovrebbero essere, al più, oggetto di approfondimento sociologico in una prospettiva storica, in quanto schemi superati e contestati per la loro infondatezza scientifica e il portato stigmatizzante contro le donne, non di certo riferimenti di una psicologia contemporanea. 

I conflitti e i “problemi relazionali” nel nucleo familiare sono generalmente stabilizzati nella forma dell’alienazione genitoriale e delle sue più recenti declinazioni (conflitto di lealtà, rapporto simbiotico, sindrome della madre malevola, ecc.). Tutti costrutti questi veicolati dalle consulenze tecniche d’ufficio e recepiti dalla prosa giudiziaria di merito per fissare le problematiche delle relazioni familiari in un regime patologico, generalmente imputato alla madre.

Per porre rimedio ai danni che deriverebbero, secondo la prospettiva veicolata dalla psicologia forense in sede giudiziaria, da una società “senza padre” e quindi senza “norma”, si prescrive l’intervento di servizi sociali, consulenti di coppia, psicoterapeuti, figure che nello svolgimento delle funzioni di volta in volta delegate dall’autorità giudiziaria, costruiscono nuovi obblighi, presidiati non dalla legge, ma proprio dalla paura di vedere allontanato da sé i figli/le figlie, che da strumento eccezionale di prevenzione di un pregiudizio concreto e grave, diviene ordinario mezzo di coercizione e  sanzione del comportamento di un genitore che si assume non collaborativo nei confronti dell’altro, (per lo più le donne) e di “terapia” volta a ristabilire la relazione tra i figli e il genitore rifiutato.

Ebbene, in questi termini, si ingenera un paradosso che smaschera la completa estraneità all’ordinamento giuridico della prospettiva perseguita dalla giurisprudenza di merito: mentre un minore viene ridotto sempre più spesso a res di un’esecuzione assistita dalla forza pubblica, con autorizzazione a rimuovere ogni ostacolo, nei confronti degli adulti si chiarisce che la frequentazione del figlio secondo i tempi e le modalità definite dal giudice della crisi familiare non è suscettibile di esecuzione diretta (in forma specifica), perché non è ipotizzabile che un terzo estraneo possa sostituirsi al genitore. Trattandosi, infatti, di un dovere funzionale allo scopo di garantire al figlio attenzioni, cura ed affetto, non è ipotizzabile, e giustamente, che il genitore possa essere coartato, mediante il meccanismo di cui all’art. 614 bis c.p.c., ad un rapporto che implica un coinvolgimento anche affettivo; e anzi si ritiene che la misura coercitiva potrebbe anzi essere finanche dannosa perché il genitore, per sottrarsi alla minaccia di dover pagare una somma di denaro, potrebbe prendere il figlio con sé senza averne cura.

La misura dell’allontanamento forzoso dei minori dal genitore di riferimento si traduce nei confronti del minore proprio in una coercizione della relazione affettiva preclusa nei confronti dell’adulto, mentre si ignora la paura del minore nei confronti del genitore presso il quale deve essere trasferito contro la sua volontà o che comunque rifiuta, anche allorché questo stato d’animo rivela in concreto la non corrispondenza tra l’interesse preminente da tutelare e il provvedimento adottato. 

L’illegittimità di misure di limitazione della responsabilità genitoriale e di allontanamento coatto del figlio minorenne dal genitore di riferimento emerge in tutta evidenza in tema di esecuzione di tutti i provvedimenti “convenienti” di cui all’art. 333 c.c., ma anche di quelli di decadenza nei confronti di un minore che manifesta una volontà contraria a relazionarsi con il genitore “che ne chiede la consegna” nonché una volontà contraria a lasciare il genitore di riferimento dal quale è allontanato, volontà che impone soluzioni volte a ricercare modalità rispettose del minore quale soggetto di diritti e quindi dei suoi tempi, della sua personalità e delle sue determinazioni.

Sul tema appare significativa risalente giurisprudenza che, dando prova di un esercizio della giurisdizione civile e minorile capace di ascolto autentico e di vicinanza alla materialità della vita delle persone, comprese i minori, sui quali i provvedimenti hanno effetto, in presenza di obbligo di consegna del minore contro la volontà di quest’ultimo, a fronte del rifiuto, il processo viene sospeso e la questione rimessa al giudice della cognizione, ovvero ha dichiarato l’incoercibilità degli obblighi di fare riguardanti la consegna di minori, se risulti provato che la separazione dei minori dai precedenti affidatari di fatto provocherebbe loro danni gravissimi sul piano dell’equilibrio psicofisico. 

L’allontanamento coatto del figlio dal genitore di riferimento, solitamente la madre, è eseguito attualmente secondo prassi operative contra legem che sono il risultato della combinazione sproporzionata di più istituti, da quelli del testo unico di pubblica sicurezza fino a quelli del codice di procedura penale, in un’escalation provvedimentale dell’autorità giudiziaria minorile che perde di vista il bambino/la bambina e i suoi diritti e libertà fondamentali, per perseguire esclusivamente la tutela dell’autorità delle decisioni giudiziarie e l’interesse all’esecuzione delle sentenze e dei provvedimenti con mezzi e modalità sproporzionate e irragionevoli non consentite neppure in sede di esecuzione della pena nei confronti di una persona condannata per reati. 

La compressione dei diritti fondamentali del minore perdura successivamente per un tempo non determinato dalla legge e neppure dall’autorità giudiziaria che, in presenza del rifiuto del minore nei confronti dell’altro genitore, integra l’allontanamento con la “misura accessoria” del collocamento in struttura residenza extra-familiare e con divieto, anche sine die, di frequentazione e contatto con la madre da cui sono allontanati.

La lettura sistematica delle disposizioni invocate dall’autorità giudiziaria per giustificare la decisione dell’allontanamento forzoso del minore dal genitore di riferimento contro la volontà del minore e per presunte condotte di plagio, in un ordinamento che ha espunto la corrispondente fattispecie incriminatrice per illegittimità costituzionale, restituisce una grave e diffusa compressione della libertà personale, del diritto alla salute e al rispetto della vita privata e familiare nei confronti dei figli minorenni, ma anche del genitore dal quale il minore viene allontanato, in particolare sotto il profilo di una sistematica violazione del principio di riserva di legge, ma anche una violazione di fatto della riserva di giurisdizione.

Dalla disamina della giurisprudenza di merito più recente emerge, infatti, che l’allontanamento viene adottato al di fuori dei casi previsti dalla legge con un’interpretazione analogica della nozione di comportamento maltrattante nei confronti dei figli che la legge pone a fondamento dell’adozione della misura di allontanamento dalla casa familiare, includendovi il costrutto ascientifico dell’alienazione parentale, nuovamente censurata dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 9691/2022.

La misura, inoltre, è posta in esecuzione mediante una coercizione psicologica e fisica ai danni del minore, condotta che di per sé costituisce una forma di violenza che viola gli articoli 13 e 32 Cost. e l’articolo 3 CEDU e che la stessa Corte di cassazione ha espressamente ritenuto “fuori dallo Stato di diritto”.

L’esecuzione coatta nei confronti dei minori della misura dell’allontanamento dalla casa abituale di residenza e dal genitore di riferimento contro la volontà del minore, destinatario di coazione psicologica e fisica, integra violazione dell’articolo 3 CEDU, in quanto risulta raggiungere un livello severo di gravità all’esito della valutazione intrinsecamente relativa delle circostanze del caso. 

Tra le circostanze oggetto di valutazione ai fini della sussistenza di una violazione dell’articolo 3 CEDU sono da intendersi compresi innanzitutto l’età del destinatario della misura, le sue condizioni psicofisiche, la natura e il contesto del trattamento, il modo in cui se ne prospetta l’esecuzione (con ausilio delle forze di polizia e coattivamente contro la volontà del minore), la sua durata (sine die), i suoi effetti fisici e mentali. Anche se le autorità che hanno disposto la misura giustificano l’esecuzione coatta di un allontanamento che terrorizza il bambino motivandola con la finalità di ristabilire l’accesso del padre al figlio in attuazione degli obblighi positivi derivanti dall’art. 8 CEDU, questa motivazione non esclude una violazione dell’articolo 3 nei confronti del minore coinvolto (si veda la sentenza Peers c. Grecia, no 28524/95, § 67, CEDH 2001-III, § 74, nella parte in cui si legge che non esclude la violazione dell’art. 3 l’assenza di finalità denigratorie).

Non si può trascurare, inoltre, che la Corte Edu ha evidenziato che nei casi che riguardano questioni di collocamento dei bambini e di restrizioni di accesso, gli interessi del bambino devono prevalere su tutte le altre considerazioni e deve essere esercitata la massima cautela quando si ricorre alla coercizione in questo settore delicato. È la stessa Corte a rammentare che il fatto che gli sforzi delle autorità a ristabilire una relazione genitore-figlio siano stati vani non porta automaticamente a concludere che lo Stato si è sottratto agli obblighi positivi derivanti dall’articolo 8 della Convenzione, dal momento che l’obbligo per le autorità nazionali di adottare misure per riunire il figlio e il genitore con cui non convive non è assoluto, la comprensione e la cooperazione di tutte le persone interessate costituiscono sempre un fattore importante e i tribunali per ripristinare i rapporti genitore-figlio possono adottare solo misure “ragionevoli” agendo con la massima prudenza; dinanzi alla volontà di un minore, quest’ultimo non può essere costretto con la forza ad allacciare una relazione genitoriale che rifiuta e dinanzi a ciò non può essere invocata la violazione dell’art.8 della Convenzione EDU (cfr. C. EDU Spano c. Italia, 2020). 

Di certo l’obbligo positivo derivante dall’articolo 8 CEDU non può tradursi nell’attuazione di misure che violano l’obbligo di astensione da trattamenti inumani e degradanti vietati dall’art. 3 CEDU. E infatti, se le autorità nazionali devono sforzarsi di agevolare la collaborazione, un obbligo per le stesse di ricorrere alla coercizione in materia non può che essere limitato: esse devono tenere conto degli interessi e dei diritti e delle libertà di tutte le persone coinvolte, in particolare degli interessi superiori del minore e dei diritti conferiti allo stesso dalla Convenzione. In quest’ottica, l’asserito esercizio dell’articolo 8 della Convenzione non può autorizzare neppure un genitore a far adottare misure pregiudizievoli per la salute e lo sviluppo del figlio.

Ciò che invece può ben essere invocata nelle prassi diffuse sul territorio minori sono esposti a trattamenti inumani e degradanti al di fuori di ogni ragionevole bilanciamento delle posizioni giuridiche rilevanti ma contrapposte dei genitori con il suo superiore interesse, concetto che rimane vuota formula, dal momento che si ignora l’impatto delle misure disposte di volta in volta con il «benessere del bambino» di valenza costituzionale (articolo 32 Cost.), avvalendosi spesso dell’ausilio di personale medico-sanitario al di fuori dei rigorosi confini tracciati dalla legge n. 833 del 1978.

Articolo su: personaedanno.it

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